venerdì 4 giugno 2021

Di anno in anno (di lockdown in lockdown)

L’anno scorso sono rimasta bloccata in campagna per più o meno tre mesi, senza poter tornare a casa perché sì, sarei potuta rientrare al mio domicilio, ma non avrei potuto giustificare il mio successivo ritorno in campagna, dove ho cinque gatti da accudire. Quindi non mi sono mai praticamente allontanata dal comune non di residenza e mi sono forzatamente separata dalla mia vita normale. In pratica ho iniziato a parlare con i gatti, che sono ottimi ascoltatori, o da sola. Poi, finalmente, è arrivato il momento in cui ci hanno restituito libertà di movimento. Per suggellare la ritrovata unità familiare, siamo corsi a festeggiare in Piemonte, all’enoteca Re di coppe a Orta. A seguire, nuovo rialzo dei contagi, nuovo giro. Ma quest’anno è andata meglio con il secondo lockdown: avendo preso la residenza in campagna, sono riuscita a muovermi fra la nuova casa e la vecchia, puntellando l’impalcatura della quotidianità familiare.
In fin dei conti, non posso dire di aver risentito troppo delle chiusure, ma non poter uscire a cena mi mancava, e parecchio.
Dopo tanta attesa, si vorrebbe ricominciare con un'esperienza eccellente, che ripaghi del lungo digiuno. La soluzione a questo quesito mi è nota, senza incertezze: Paolo Gatta. L'indirizzo web del Pàscia, però, non è più attivo e su Facebook vedo lo chef intento in altre molteplici attività. Inoltre ci siamo ripromessi di tornare con un'amica.
Ho pensato e ripensato a dove sarei voluta andare, considerando ristoranti già noti, che coniugassero qualità e prezzo, e non troppo lontani (nei primi tempi della riapertura non si ci poteva spostare fra regioni).
Alla fine la scelta è stata casuale. In pellegrinaggio alla tomba di Milva – e, senza saperlo, di Giuditta Pasta – abbiamo scoperto Blevio, costeggiando il lago appena dopo Como. Il paese è molto grazioso, arroccato e scosceso, quasi ligure, ma d’acqua dolce.



Il ristorante Momi si incontra subito percorrendo la sponda del lago. La location, come si suole dire, è molto bella: tavoli affacciati sull’acqua, lungo il camminamento di ghiaia, e una terrazza sopraelevata. 
Era l’ora dell’aperitivo: due bicchieri di Creari, garganega in purezza, una scoperta (se ne parla qui: slowfood). La sommelier ci illustra il vino e spiega che il locale non punta molto sugli aperitivi, – e infatti servono solamente una ciotolina di patatine – piuttosto sul ristorante. Per vegetariani ci sono un solo antipasto e un solo primo. Il cibo appaga l’occhio, non troppo il palato, peccato. È come se l’abitudine alla cucina tradizionale (nel menu si alternano carne e pesce) sospenda in un limbo indefinito i sapori non rafforzati da fondi di cottura o altre basi della cucina onnivora. Non posso evidentemente sapere come siano le preparazioni non vegetariane, ma queste ultime non si direbbero il piatto forte. La pallina di gelato sul dessert (buono: torta gratinata di mele e lamelle di mandorle) fa un po’ stile cerimonie e banchetti. Comunque, ne ho fatto la recensione su Tripadvisor, se volete leggerla.
Aspettando che arrivi finalmente uno stipendio (e quindi un'altra cena fuori), torno a cucinare per me e per gli amici.











lunedì 26 aprile 2021

Shakshuka

Mi trovo mio malgrado in un periodo di inattività lavorativa (non ho perso il lavoro, come moltissimi altri, per fortuna, ma lavoro in un ambito in cui lo sfruttamento, la mancanza di garanzie, la terziarizzazione sono la regola, e ogni euro risparmiato sui collaboratori a vari livelli probabilmente si concretizza in un premio produzione per il dirigente di turno. È uno schifo, lo so da me, ma poiché nessuno controlla, avanti così. 
Tutto ciò per dire che questa vacanza non retribuita mi concede finalmente tempo per leggere: allora alterno la cura dell’orto e del giardino con la lettura, soprattutto di narrativa. Il libro è Il tunnel di Abraham B. Yehoshua, un autore che ho amato moltissimo, di cui ho letto praticamente tutto e su cui non tornavo da tempo – e infatti ho recuperato di seguito La scena perduta (del 2011!) e questo (del 2018), dove ho ritrovato lo scrittore che conoscevo, con il dubbio non confermato (dato che non intendo riprendere i suoi vecchi romanzi, non vorrei mai ricavarne una qualche pur vaga delusione) di una libertà tipicamente senile che emerge qua e là, in alcune osservazioni e nella trama. Ma ben venga: quando il tempo che resta è poco, si economizzano le energie e si liberano guizzi stilistici e una leggerezza acuta e pungente che la maturità ancora non concede (mi viene in mente, nel cinema, l’ultimo De Oliveira, per esempio, o il mio adorato Iosseliani). 




Non divaghiamo. Qui non si parla di letteratura, ma di cucina. E Il tunnel mi ha fatto scoprire un piatto tipico della cucina israeliana – introdotto da ebrei del Maghreb nella cucina israeliana, dice Wikipedia – la shakshuka. Il protagonista, che all’inizio del romanzo scopre di soffrire di demenza senile, acquista troppi pomodori e chiede aiuto alla sorella su come impiegarli. È infatti il protagonista che ha l’incarico di fare la spesa e di cucinare, anche se sa preparare solo pochi piatti, e nel prosieguo della narrazione il contenuto della grande pentola viene più volte rimesso sul fuoco, per diversi ospiti in occasioni successive, e ogni volta si ripete come la shakshuka sia ancora più buona riscaldata. Ideale, per me.




Ho cercato la ricetta in rete, quindi l’ho confrontata con quella di Yotam Ottolenghi (in Plenty, 2010, che, lo ammetto, consulto raramente, pur avendolo da anni, perché ha poche foto: a me piacciono i libri di cucina in cui posso vedere il piatto finito, mi aiuta anche a introdurre varianti e modifiche) e, per questa prima prova, ne ho sperimentato un miscuglio selezionando gli ingredienti presi dal web e dal ricettario. Per le variazioni, vedremo le prossime volte. La mia versione ha semi di cumino tostati, cipolla tritata, niente aglio, due peperoncini, un peperone, una decina di pomodori, curcuma, coriandolo in foglie. E uova, naturalmente.

lunedì 12 aprile 2021

Cucù

Riprendere dopo tanto tempo non è facile, mi sono anche chiesta se avesse senso continuare. Non ho fatto viaggi – come la maggior parte di persone, in tempi di covid, non sono potuta andare a cena fuori (idem); d’altra parte ho sperimentato una cucina di sopravvivenza dando fondo a più o meno tutto quel che c’era in casa, almeno durante la prima ondata, che ci ha disorientato tutti quanti, convinti però, forse, che non ne sarebbero seguite altre. E invece. 
Ho lavorato l’orto (cioè, me lo sono conquistato a colpi di zappa), ho letto libri (che felicità) e ho cucinato, preferendo l’immediatezza di Instagram rispetto alla distesa riflessione della scrittura. Ho praticato e rifinito un accorto equilibrio per dosare e far fruttare al meglio ogni ingrediente che si trovava in casa al momento del ‘congelamento’ della possibilità di spostarsi, nell’incertezza totale su cosa fare a fronte di una minaccia non ancora definita, che non sapevamo come descrivere né con quali e quante cautele attrezzarci. Ho conservato su Facebook un resoconto piuttosto comico dell’esperienza (chi avrebbe immaginato di poterla definire così?) di una spesa al discount del paese, con un freddo invernale. 

 
La fila di un'ora fuori dal discount, 23 marzo 2020

Adesso siamo in piena terza ondata ma con la prospettiva della quarta e (in campo medio-lungo per la mia fascia d’età) del vaccino (messo a punto in tempo record, ci proteggerà, forse, e non si sa per quanto). Non si sente più parlare, rispetto allo scorso anno, delle cause ambientali di questa pandemia – inquinamento, consumo di suolo, allevamenti, sfruttamento di ogni risorsa minerale e animale, animata e inanimata, sprechi, imballaggi, superfluo… Oggi appunto la prospettiva si è accorciata: si guarda al vaccino e al ritorno alla normalità, quella ‘normalità’ che sopravvive indenne e, con illecito e colpevole oblio, forse assolta solo perché quanto ci è mancata
Nel frattempo abbiamo avuto modo di esprimere il peggio di noi (altro che solidarietà) e di soddisfare i nostri bisogni a ogni occasione, magari a scapito di altri (bello fare la corsetta, tanto sono da solo – ma se ogni ‘solo’ avesse fatto lo stesso…). Assai più grave, ancora restano chiusi teatri e cinema (il problema è davvero serio: il tg li definisce ‘svaghi’ come le palestre), spazi più o meno ampi dove pure si sta fermi più che fra i banchi di scuola. 
Ecco ciò che a me manca: una informazione, un dibattito pubblico costante e perfino insistente sui modelli di consumo, sull’impronta ecologica, sulle risorse. 
Facciamo la conta dei decessi e dei ricoveri, dei nuovi poveri, della sprovvedutezza politica nel riorganizzare la sanità mentre un anno passava. La contabilizzazione delle perdite economiche ingrossa la piena delle lamentele senza mai trasformarsi in una proposta di cambiamento: capitale e consumi, avanti così. Se non ci sono nuove idee – ma non credo proprio, c’è chi lavora alla riconversione di attività produttive, anche se solo in alcuni settori – almeno che ci sia una insistente campagna istituzionale di educazione ai consumi consapevoli. 
Il primo lockdown ha ricolorato le mappe dell’inquinamento dell’aria, ma a conti fatti il miglioramento pare che sia stato di poco rilievo. “Nonostante l’impressione che tutto si fosse fermato, con la paralisi del traffico aereo e su strada che ha mandato temporaneamente a picco il prezzo del greggio, le emissioni globali si sono ridotte di appena il 17 per cento. I nostri schemi e le nostre abitudini di vita sono così radicati che anche quando abbiamo l’impressione di essere inerti il nostro impatto sul pianeta è enorme” – cito da uno dei libri che ho letto durante la recente zona rossa, Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason (Iperborea).

La copertina del libro 


In tv (davanti alla quale, blindati in casa, presumibilmente passiamo parecchio tempo) sono tornati di moda gli spot pubblicitari con la canzoncina, avete notato? Orecchiabile e orrendo, lo trovo particolarmente raccapricciante quando promuovono insaccati e salumi dei grandi marchi che si arricchiscono con la produzione intensiva. Che vuoi fare se non puoi uscire? Mangiare. Roba confezionata nella plastica. Ormai anche i libri di scuola dicono chiaro e tondo quanto noi che foderavamo le pareti di amianto non prendevamo nemmeno in considerazione: l’acqua non si spreca e va salvaguardata, plastiche e microplastiche non solo inquinano ma entrano nella catena alimentare, il modo in cui produciamo e consumiamo energia va riconsiderato eccetera. Ci fermiamo ma, come dice lo scrittore islandese, non restiamo inerti. E per ogni indicatore che si abbassa, un altro si alza: guanti e mascherine (ricordate di tagliare gli elastici: possono danneggiare gli animali, anche se non si capisce come possano entrare in contatto con la nostra pattumiera ma tant’è), confezioni per il cibo da asporto… dispositivi medici usa e getta che prima erano limitati agli ospedali (e già non era poco) e ora sono diffusi su scala globale: non fa spavento a pensarci? 

Scusatemi per questo post lungo e deprimente. Come per molti altri, la pandemia non ha migliorato la mia tempra caratteriale e morale. Anzi, mi monta ancora di più la rabbia di fronte a ogni atto quotidiano di sconsideratezza – un rubinetto aperto inutilmente, l’anta del frigorifero spalancata ben oltre il necessario, acquisti e resi del commercio on line che hanno un consumo energetico enorme e soprattutto non necessario (Report aveva fatto una bella inchiesta su questo tema. Per avere un’idea, leggete questo articolo pubblicato dall'Ansa, L’insostenibile costo dei resi, stoviglie e tovaglioli e fazzolettini di carta, carta da cucina e alluminio, e naturalmente il cibo che finisce nella spazzatura. Tutte scelte alla nostra portata. Non saranno i singoli a cambiare le sorti del disastro ambientale che si va definendo sotto i nostri occhi, forse, ma sono convinta che non cominciare per niente a cambiare le nostre abitudini sia un atteggiamento irresponsabile. E che la pandemia ce lo imponga: la Terra non ne può più.

 
Quando ciò che è commestibile finisce nell'umido