lunedì 12 aprile 2021

Cucù

Riprendere dopo tanto tempo non è facile, mi sono anche chiesta se avesse senso continuare. Non ho fatto viaggi – come la maggior parte di persone, in tempi di covid, non sono potuta andare a cena fuori (idem); d’altra parte ho sperimentato una cucina di sopravvivenza dando fondo a più o meno tutto quel che c’era in casa, almeno durante la prima ondata, che ci ha disorientato tutti quanti, convinti però, forse, che non ne sarebbero seguite altre. E invece. 
Ho lavorato l’orto (cioè, me lo sono conquistato a colpi di zappa), ho letto libri (che felicità) e ho cucinato, preferendo l’immediatezza di Instagram rispetto alla distesa riflessione della scrittura. Ho praticato e rifinito un accorto equilibrio per dosare e far fruttare al meglio ogni ingrediente che si trovava in casa al momento del ‘congelamento’ della possibilità di spostarsi, nell’incertezza totale su cosa fare a fronte di una minaccia non ancora definita, che non sapevamo come descrivere né con quali e quante cautele attrezzarci. Ho conservato su Facebook un resoconto piuttosto comico dell’esperienza (chi avrebbe immaginato di poterla definire così?) di una spesa al discount del paese, con un freddo invernale. 

 
La fila di un'ora fuori dal discount, 23 marzo 2020

Adesso siamo in piena terza ondata ma con la prospettiva della quarta e (in campo medio-lungo per la mia fascia d’età) del vaccino (messo a punto in tempo record, ci proteggerà, forse, e non si sa per quanto). Non si sente più parlare, rispetto allo scorso anno, delle cause ambientali di questa pandemia – inquinamento, consumo di suolo, allevamenti, sfruttamento di ogni risorsa minerale e animale, animata e inanimata, sprechi, imballaggi, superfluo… Oggi appunto la prospettiva si è accorciata: si guarda al vaccino e al ritorno alla normalità, quella ‘normalità’ che sopravvive indenne e, con illecito e colpevole oblio, forse assolta solo perché quanto ci è mancata
Nel frattempo abbiamo avuto modo di esprimere il peggio di noi (altro che solidarietà) e di soddisfare i nostri bisogni a ogni occasione, magari a scapito di altri (bello fare la corsetta, tanto sono da solo – ma se ogni ‘solo’ avesse fatto lo stesso…). Assai più grave, ancora restano chiusi teatri e cinema (il problema è davvero serio: il tg li definisce ‘svaghi’ come le palestre), spazi più o meno ampi dove pure si sta fermi più che fra i banchi di scuola. 
Ecco ciò che a me manca: una informazione, un dibattito pubblico costante e perfino insistente sui modelli di consumo, sull’impronta ecologica, sulle risorse. 
Facciamo la conta dei decessi e dei ricoveri, dei nuovi poveri, della sprovvedutezza politica nel riorganizzare la sanità mentre un anno passava. La contabilizzazione delle perdite economiche ingrossa la piena delle lamentele senza mai trasformarsi in una proposta di cambiamento: capitale e consumi, avanti così. Se non ci sono nuove idee – ma non credo proprio, c’è chi lavora alla riconversione di attività produttive, anche se solo in alcuni settori – almeno che ci sia una insistente campagna istituzionale di educazione ai consumi consapevoli. 
Il primo lockdown ha ricolorato le mappe dell’inquinamento dell’aria, ma a conti fatti il miglioramento pare che sia stato di poco rilievo. “Nonostante l’impressione che tutto si fosse fermato, con la paralisi del traffico aereo e su strada che ha mandato temporaneamente a picco il prezzo del greggio, le emissioni globali si sono ridotte di appena il 17 per cento. I nostri schemi e le nostre abitudini di vita sono così radicati che anche quando abbiamo l’impressione di essere inerti il nostro impatto sul pianeta è enorme” – cito da uno dei libri che ho letto durante la recente zona rossa, Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason (Iperborea).

La copertina del libro 


In tv (davanti alla quale, blindati in casa, presumibilmente passiamo parecchio tempo) sono tornati di moda gli spot pubblicitari con la canzoncina, avete notato? Orecchiabile e orrendo, lo trovo particolarmente raccapricciante quando promuovono insaccati e salumi dei grandi marchi che si arricchiscono con la produzione intensiva. Che vuoi fare se non puoi uscire? Mangiare. Roba confezionata nella plastica. Ormai anche i libri di scuola dicono chiaro e tondo quanto noi che foderavamo le pareti di amianto non prendevamo nemmeno in considerazione: l’acqua non si spreca e va salvaguardata, plastiche e microplastiche non solo inquinano ma entrano nella catena alimentare, il modo in cui produciamo e consumiamo energia va riconsiderato eccetera. Ci fermiamo ma, come dice lo scrittore islandese, non restiamo inerti. E per ogni indicatore che si abbassa, un altro si alza: guanti e mascherine (ricordate di tagliare gli elastici: possono danneggiare gli animali, anche se non si capisce come possano entrare in contatto con la nostra pattumiera ma tant’è), confezioni per il cibo da asporto… dispositivi medici usa e getta che prima erano limitati agli ospedali (e già non era poco) e ora sono diffusi su scala globale: non fa spavento a pensarci? 

Scusatemi per questo post lungo e deprimente. Come per molti altri, la pandemia non ha migliorato la mia tempra caratteriale e morale. Anzi, mi monta ancora di più la rabbia di fronte a ogni atto quotidiano di sconsideratezza – un rubinetto aperto inutilmente, l’anta del frigorifero spalancata ben oltre il necessario, acquisti e resi del commercio on line che hanno un consumo energetico enorme e soprattutto non necessario (Report aveva fatto una bella inchiesta su questo tema. Per avere un’idea, leggete questo articolo pubblicato dall'Ansa, L’insostenibile costo dei resi, stoviglie e tovaglioli e fazzolettini di carta, carta da cucina e alluminio, e naturalmente il cibo che finisce nella spazzatura. Tutte scelte alla nostra portata. Non saranno i singoli a cambiare le sorti del disastro ambientale che si va definendo sotto i nostri occhi, forse, ma sono convinta che non cominciare per niente a cambiare le nostre abitudini sia un atteggiamento irresponsabile. E che la pandemia ce lo imponga: la Terra non ne può più.

 
Quando ciò che è commestibile finisce nell'umido

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