domenica 30 settembre 2018

New York cuisine

(Diario culinario di una settimana a New York)

Perfettamente rispondente a quanto ci si immagina, i newyorkesi hanno spesso in mano un bicchierone con il coperchio e la cannuccia, da cui sorseggiano ininterrottamente caffè, spremute, estratti e beveroni vari. Il caffè, così protetto e caldo come la lava quando viene acquistato, dura un’eternità; il ghiaccio dei beveroni fatica a sciogliersi nei vagoni della metro, dove la temperatura è tenuta sui -10 °C dall’aria condizionata. Abitudini. E capita spesso anche di vedere qualcuno con il vassoio sagomato dove sono alloggiati più caffè, pronti per la consegna. Tutto proprio come al cinema e alla tv. A dispetto delle malsane consuetudini alimentari che rendono obesa buona parte della popolazione – in un Paese dove la sanità non è garantita dallo Stato e curarsi può diventare un incubo – a New York personalmente ho mangiato bene e benissimo.

All’arrivo abbiamo cominciato con un abbondante spuntino messicano che poteva anche considerarsi cena: burritos veggie e frech fries (riccioli di patate rifritte: una discreta schifezza, tanto per prendere confidenza con i gusti locali) per finire di riempire la pancia dopo l’orribile ‘cibo’ servito durante il volo American Airlines. Nel burrito riso, fagioli neri, spezie; per mandare giù tutto un bel bicchierozzo di margarita – da quel momento si incomincia a capire che la plastica viene usata ovunquemente senza scrupoli o riserve di sorta.
Si mangia a tutte le ore, ai tavolini dei numerosi parchi o sull’erba, fuori dagli uffici o per strada. La cucina non chiude mai, per così dire. Comodo, però.
Non è per niente difficile mangiare vegetariano o vegano a New York (se penso a quante difficoltà invece nella mia amata Parigi, che peraltro non visito da parecchi anni) – non solo cibo di strada ma locali e ristoranti.
L’Amituofo a Brooklyn non è proprio all’altezza ma solamente passabile, ripiego di un tentativo di provare una pizzeria che però è strapiena - altrove, dalla Francia alla Thailandia, avrei detto che non si dovrebbe mangiare italiano, ma qui ci sono tutte le cucine del mondo e, se è proprio questa la specificità newyorkese, quella italiana è una delle innumerevoli scelte gastronomiche. Inoltre, ci dicono che le pizze di Roberta’s sono molto buone. Alla fine, però, non siamo riusciti ad assaggiarle. Ci sarebbe una specialità, affermano le guide, il pastrami on rye ma credo mi asterrò, dato che, manco a dirlo, è un sandwich e contiene carne.
Luci basse e calde per creare l’atmosfera (per leggere il menu, alla mia età devo usare la pila del cellulare), così anche le topaie acquistano quel certo non so che d’atmosfera.

Maison Première
Modern Love, Brooklyn


Non potevamo certo mancare lo street food, simbolo newyorkese per eccellenza. Due assaggi: uno thai e l’altro indiano. Ottimi.

Nel programma c’è l’intenzione di provare le ciambelle – fatto: per ben due volte siamo tornati da Doghnut Plant, proprio accanto al Chelsea Hotel attualmente in restauro, dove si vantano di aver inventato la ciambella al caramello salato e che in effetti è una vera bontà e ha piuttosto la forma di un bombolone. Una volta capito che a New York un caffè americano basta per due – a meno che non si preferisca il classico e carissimo espresso che peraltro non bevo mai nemmeno in Italia – ed è equamente divisibile nei due bicchieri di carta in cui viene servito a causa della temperatura, capiamo che possiamo anche risparmiare qualcosa. Qui l’acqua costa uno sproposito: per una orrenda san benedetto d’importazione quasi tre dollari e non finiamo mai di stupirci di come il prezzo sia solo raramente quello effettivo indicato, perché vanno sempre aggiunte le tasse.



Le tasse. Ve lo spiego come l’hanno spiegato a noi - utile, molto utile da sapere se non si è pratici del Paese e delle abitudini locali, sono informazioni che non è possibile evincere dai serial televisivi. Allora, funziona così: chiedi il conto, dai la carta, paghi, e ti ritorna lo scontrino con tre opzioni, 18% – 22% – 25%, ne scegli una in base a quanto hai gradito il servizio (sempre davvero cortese) e firmi. Non esiste lasciare una mancia a discrezione – noi lo abbiamo fatto, facendo una figuraccia (con la precisa sensazione di farla) – per di più misera, perché il prezzo effettivo non è quello che si paga alla prima consegna della carta ma quello che si sceglie di pagare con la percentuale, dato che il prelievo dalla carta resta ‘aperto’ fino a quando non si è compiuta la scelta siglata dalla firma. Capito? Solo la correttezza anglosassone ha fatto sì che non ci prelevassero dalla carta l’ulteriore cifra dovuta per il servizio, neppure il minimo 18% a fronte dei miserrimi tre dollari da noi lasciati su un conto di novanta e passa.
Ecco, sì, diciamo che New York è un po’ cara. E non solo per la faccenda delle tasse. Il vino è un capitolo dolente. Al ristorante non trovi sul menu niente che costi meno di una trentina di dollari, ma abbiamo strabuzzato gli occhi quando – sempre nell’oyster bar dove abbiamo malamente sbagliato a lasciare la mancia – abbiamo ordinato un bicchiere (scoprendo che non era mica tanto grande, di quelli da degustazione) di Chablis: 15 dollari. Due, trenta. Quattro, sessanta. Tanto valeva prendere la bottiglia (questo conteggio facile facile ha inciso in modo significativo sull’entità della mancia). Lo Chablis era ottimo, comunque.

Lo  Chablis da 15 dollari
Gumbo soup con riso e spezie, piatto tipico di New Orleans. Maison Première

Una sera ci siamo tolti lo sfizio di cenare a casa: spesa di formaggi locali, decisamente buoni, e una bottiglia che dà una gradevole sensazione anche sapendo di averla pagata in negozio un po’ meno di una ventina di dollari. Ultima cena, seguiamo il consiglio della nostra ospite – russa, di Leningrado (che nostalgia), emigrata, e vegetariana-quasi-vegana. Il Modern love è un ristorante che ci è piaciuto enormemente, una vera chiusura in bellezza del viaggio.
Doveste andarci, consiglio gli Starters, perché le Entrées sono un po’ troppo abbondanti per i palati europei, secondo me. Avrete notato come, con un tocco di provincialismo snob, a New York tutto ciò che è francese considerato chic: nomi di ristoranti, scelte à la carte ecc.

Se i supermercati abbondano di cibo confezionato nella plastica, esistono anche i mercati rionali: a Fort Greene Park la domenica mattina si possono incontrare i newyorchesi che in ciabatte o in tuta fanno la loro spesa a km 0.

Fort Greene market
Fort Greene market


Un altro ristorante che consiglio vivamente è il Moustache, al Village. Adoro la cucina mediorientale, il mezzeh libanesi, la pita gonfia e calda. Una avvertenza: non si paga con la carta. Solo contanti. Sono rimasta in ostaggio dei gestori, mentre il locale, nonostante il Pride – che è una festa collettiva gigantesca, una parata fantasmagorica e partecipatissima che noi neanche ci immaginiamo – si svuotava a poco a poco, fintanto che il mio compagno non è riuscito a trovare una banca. Impresa non facile, essendoci transenne e tortuosi percorsi obbligati ovunque e ogni genere di gente e vari poliziotti. E ha pure piovuto un po’.
Non sto a raccontarvi degli spaghetti che parevano di plastica esposti al self service del Rockfeller Center, né della apple pie assaggiata in un bel locale a Soho (Fanelli Café), mentre non posso assolutamente tralasciare l’immensa soddisfazione di un giretto a Little India – dove ho trovato un paio di market fantastici, con tutto quello che volevo comprare da tempo, compresa la pesante padella (khadai) che non potevo certo mettere in valigia! e abbiamo visto due gatti, animale raro in una città di cani e aree per cani. Mi sono accontentata di acquistare i pentolini (karahi) di rame e acciaio e il relativo cucchiaio.

Altre foto sul profilo instagram www.instagram.com/vegetarianisidiventa

La sala da pranzo dell'hotel Carlyle




lunedì 21 maggio 2018

Persepolis

Mentre sto immaginando un viaggio nel Paese che da sempre vorrei visitare, mi sono concessa un assaggio della sua cucina, con grande soddisfazione. A Modena c'è questo ristorante, Persepolis, a dieci minuti a piedi dal duomo. Ambiente e gestore accoglienti, il locale è gestito da marito e moglie, lei in cucina e lui in sala, ed è frequentato anche da iraniani, buon segno. Ve lo racconto attraverso i piatti. Ho dimenticato di fotografare gli antipasti - cucu sibzamini, kask e bademjan e il dough, lo yogurt salato da bere - ma vi rimando a un sito dove trovate le ricette.

Bademjan vegetariano
Soupeh jo
Shirin polo vegetariano
Keyk
Majun
Dolce del giorno con sciroppo di melagrana
la sala
grappa persiana


Ristorante Persepolis

Persian Mama

mercoledì 4 aprile 2018

La vendetta del coniglio (contrappasso)

Meglio tardi che mai, ho trovato il giusto biglietto d'auguri per pasqua.
:D (Grazie a Tiziana).

Auguri!

Qui l'originale, nel catalogo della British Library, Rabbit beheading a man (ms Royal 10 E, fol. 61v).

'The Smithfield Decretals' (Decretals of Gregory IX with glossa ordinaria), Toulouse ca. 1300, illuminations added in London ca. 1340 (BL, Royal 10 E IV, fol. 61v).

giovedì 15 marzo 2018

Salva l'agnello (e non solo)

Ermanno Giudici, Il sacrificio degli agnelli è un peccato di gola, in "La rivista della natura". Il titolo non mi piace, tira in ballo due termini ('sacrificio' e 'peccato') che proprio non aiutano la discussione. Però leggete l'articolo, perché usa toni pacati per informare su una situazione esistente. Diciamo che ci si rivolge a chi compra nei supermercati perlopiù. Il tema è sempre piuttosto impegnativo, perché prima o poi si tira in ballo l'etica. Perché uccidere degli esseri viventi qualche domanda ce la deve pur porre.
E un po' ci casco pure io nel raccontare quel che vedo intorno. Generalizzando, mi pare di individuare alcune tipologie di comportamento ricorrenti nei confronti dell’ambiente e degli animali (vivi o morti) e dei prodotti animali: quelli che non vengono toccati né dalle immagini violente né dai discorsi pacati; che, se si soffermano sulla questione, considerano gli animali alla stregua di cose, e comunque a nostra disposizione – secondo una gerarchia inculcata dal cristianesimo, dove l’essere umano è superiore alle bestie senz’anima. Della molteplice natura accettano senza conflitti che vi siano gli 'animali da reddito', etichetta neutra e impersonale, e le 'bestie' selvatiche e libere (anche se si tratta di animali domestici), che 'stanno bene così', perché 'è il loro istinto'. Qui si collocano benissimo i cacciatori – che comprano e maneggiano armi, che vedono il sangue e l'oscenità della morte – e la maggioranza degli onnivori indifferenti che non percepisce il problema ambientale (l’insostenibilità della pesca intensiva e degli allevamenti, del consumo di acqua e di suolo legati a queste attività, delle disparità sociali e quindi l'accesso al cibo e all'acqua nelle diverse parti del mondo) prima ancora di qualsiasi obiezione di tipo etico riguardo a esseri viventi o perfino prima della preoccupazione per la propria salute (per il tipo di proteine o per la resistenza agli antibiotici).
Magari fra cent’anni, quando le persone con questa mentalità vecchia saranno morte, come lo sarò io, a poco a poco diverrà senso comune, o comunque sarà più diffusa la consapevolezza della mostruosità che stiamo perpetrando allevando, per ucciderli, milioni di animali ogni giorno. Se penso a quale era la sensibilità su questi temi un secolo fa, forse si può timidamente sperare.
All'opposto ci sono quelli che soffrono e si preoccupano per le scellerate scelte ambientali fatte dalla politica – trivellazioni, consumo di suolo, allevamenti di animali, pesticidi in agricoltura, disboscamento eccetera. Siamo pochi, siamo vigili e non incidiamo in modo significativo sui consumi, anche se vorremmo e ci proviamo. Partecipiamo a incontri e conferenze e ci riconosciamo l’un l’altro, perché poi siamo sempre gli stessi, e pochini.
Non mangiare animali è la decisione che si propone di superare la ricaduta più cruenta e insensata, ma porta con sé, a mio avviso, un ampio ventaglio di scelte collaterali: ridurre drasticamente il consumo di plastica, gli imballaggi, riutilizzare più volte, non comprare prodotti delle multinazionali e di quelle industrie che fanno male ai lavoratori oltre che all’ambiente. Operare piccole scelte quotidiane per schivare il più possibile tutte le trappole pensate per il consumatore medio e ridurre la propria impronta ecologica (sapendo che ci sarà sempre qualcuno che si occuperà di inquinare, danneggiare, sfruttare).
Questo individualismo conduce a un'altra categoria di consumatori di carne animale, che ho incontrato di frequente presentando il libro o vendendolo in qualche mercatino: quelli che scelgono il chilometro zero. Ne parla anche l’articolo: ridurre la filiera, non incoraggiare i lunghi trasporti. Con soddisfazione ciascuna di queste persone affermava di conoscere un macellaio, quello che macella le carni di animali ben alimentati e ‘felici’. Ovvio che qui la discriminante è il ceto sociale (carni buone – sulla fiducia – per chi se lo può permettere) oppure la conoscenza o la parentela con l’allevatore di campagna che ammazza il maiale, tira il collo alla gallina, colpisce alla nuca e scuoia il coniglio. Fa un po’ arrabbiare, mors tua, vita mea: il suv e la bagnarola, l’aragosta e il polpettone; da un lato una nicchia privilegiata, ai consumatori da supermercato, invece, le carni di bassa qualità di animali allevati in tempi brevissimi con mangimi che contengono di tutto e imbottiti di medicinali; carne inscatolata, insaporita e colorata artificialmente oppure pesce (in filetti, inscatolato, surgelato, intero, a pezzi) nutrito chissà come in piscine sovraffollate o pescato in un mare pieno di plastica insieme a tonni delfini tartarughe. Ci si consola così, che sia un consumo di nicchia. Qui ci collocherei anche quelli che per carità, l’agnello a pasqua mai e poi mai, ma non si negano il pollo arrosto o la bistecca di vitello, come se questi morissero di morte naturale.
Nessuno è obbligato a diventare vegetariano o vegano, naturalmente; sono scelte che si possono fare (oppure no) considerando gli innumerevoli annessi che oggi si porta dietro l’abitudine al consumo di carne (e pesce). Su questo bisogna proprio farci un pensierino. Ridurre, diminuire.
Per chiarire che chi si astiene e chi no fanno entrambi una scelta individualistica sì, ma di segno opposto: da una parte la sottrazione – nel consumo di acqua, di energia, nell’acquisto di beni superflui (e quanti sono!) – dall’altra l’intento di continuare a ottenere il meglio per sé; mi pare che l’uno e l’altro siano motivati da convinzioni molto diverse su ciò che è bene (per il pianeta) o giusto (per tutti quanti).

Be’, buona pasqua (immagino si stia avvicinando, dato il fiorire di ‘salva l’agnello’).

domenica 25 febbraio 2018

Seminario presso Ginkgo Yoga

E così, è andata. Un giorno e mezzo ai fornelli ma - mi è sembrato - partecipanti decisamente soddisfatti.
Vi mostro la foto della sala prima dell'arrivo degli iscritti, con la magnifica collezione di campane tibetane di Edoardo Cicconi.
E poi il buffet, ahimè, pressoché terminato - il tempo di dire due parole sulla mia cucina ma soprattutto di apparecchiare e approntare tutto, e ecco che mi sono dimenticata di immortalare l'insieme!



p.s. piatti di ceramica, posate di metallo e bicchieri di vetro: esistono le lavastoviglie, per fortuna, e si evita di usare la plastica.

Che cosa ho cucinato:

empanadas finocchi e porro
empanadas verza e funghi shiitake
hosomaki con carota e avocado
farinata
rotolini zucchine con semi di canapa
foglie di indivia con misto di mela e bacche di goji
riso allo yogurt
börek
uova (appena) sode
focaccia alla segale con semi di finocchio
focaccia di farro
insalata cavolo cappuccio rosso e verde

da bere c'erano tisane, succhi e lassi al cardamomo

biscotti speculoos



Vi mostro meglio alcune preparazioni nella 'cena degli avanzi'.



lunedì 5 febbraio 2018

Scienza e filosofia delle campane tibetane - 24 febbraio, Varese

Sabato 24 febbraio presso Ginkgo Yoga si terrà a Varese un seminario di una giornata, ideato e condotto da Edoardo Cicconi, dedicato all'utilizzo e all'ascolto delle campane tibetane. Si svolgerà inoltre una pratica yoga accompagnata anch'essa dalle campane tibetane.
Iscrivetevi entro il 20 febbraio scrivendo a info@ginkgoyoga.it o chiamando il 333 8395784.
Io preparerò il pranzo (leggero, per affrontare il pomeriggio).



mercoledì 31 gennaio 2018

Gioiosamente liberi

L'assunto è questa libertà creativa secondo la quale sperimentare gioiosamente e con esiti felicissimi. Almeno una volta all'anno - si vorrebbe di più - andare ad assaggiare la cucina di Paolo Gatta è una di quelle soddisfazioni che appagano. Ripropongo ancora una volta questo ristorante a Invorio, consigliandolo vivamente a chi si disponga all'assaggio senza pregiudizi.

Abbiamo bevuto:
Erbaluce brut Curticella, cantina Barbaglia
Barbera d'Asti DOCG "Vis" 2011, cantina Crealto, con affinamento in anfora.

Ristorante Pàscia.



martedì 16 gennaio 2018

Menu di capodanno

E ora che vi racconti il mio menu di capodanno, di cui sono piuttosto soddisfatta. Non è un vero e proprio menu delle feste, e si può replicare in qualsiasi occasione vogliate offrire ai vostri ospiti una minimo di scelta à la carte. L’idea era: due piatti della cucina europea, due indiani, due asiatici. Così ciascuno troverà qualcosa di proprio gusto.

Entrée
Hosomaki con carota e avocado

Antipasto
Piccoli flan di cavolfiore

Primo
Lasagna integrale con zucca, piselli e funghi shiitake

Insalata di tofu allo zenzero

Secondo
Palak paneer e riso allo yogurt


Hosomaki
Sciacquare ripetutamente il riso finché l’acqua diventa chiara; scolare e lasciare riposare un quarto d’ora. Cuocere in un volume d’acqua doppio rispetto al riso finché si assorbe. Far raffreddare mescolando delicatamente con una spatola di legno. Aggiungere acidulato di riso, poco zucchero e un pizzico di sale dopo averli leggermente riscaldati; mescolare ancora con delicatezza in modo che il condimento venga assorbito in modo uniforme.
Nel frattempo sbollentare per un minuto le carote tagliate a fiammifero; scolare e lasciare raffreddare. Far tostare dei semi di sesamo. Quando è tutto freddo, stendere sull’alga nori il riso, aggiungere un velo di wasabi allungato con acqua (attenzione a non esagerare, è molto forte!), aggiungere il sesamo tostato, quindi le carote e l’avocado tagliato in strisce. Arrotolare aiutandosi con l’apposita stuoietta, sigillare inumidendo l’estremità, quindi tagliare con un coltello affilato e bagnato.
Servire con salsa di soia e wasabi a parte.



Per i flan di cavolfiore vi rimando al mio libro, la ricetta è lì.

Lasagna integrale
Lavare i funghi shiitake e lasciarli in ammollo in acqua fredda, quindi tagliarli a listarelle e farli saltare in padella. Togliere e tenere da parte. Cuocere la zucca a dadini, del porro affettato sottilmente e i piselli. Quando è tutto pronto, aggiungere i funghi e mescolare e regolare di sale. Ungere la teglia, deporre le lasagne, quindi il ripieno, aggiungere parmigiano grattugiato o in scaglie. Preparare la besciamella con l’acqua di ammollo dei funghi, farina, sale, burro, parmigiano. Versate sulle lasagne, cospargete di pangrattato e infornate, utilizzando il grill a fine cottura.



Insalata di tofu
Tagliare il tofu in pezzetti e lasciarlo riposare per alcune ore, girandolo ogni tanto, in una marinata di zenzero, aglio e salsa di soia e olio. Sbollentare dei fagiolini, che restino ancora abbastanza verdi e croccanti (metterli in acqua gelata) e tagliare le carote a fiammifero. Affettare con la mandolina del cavolo rosso e mettere tutte le verdure e il tofu con la sua marinata in una capiente insalatiera. Mescolare e condire con altro olio, se occorre, e arachidi tritate.



Palak paneer
Che fatica fare il paneer con il latte fresco in vendita! Anche l’ultimo distributore di latte crudo di cui avessi conoscenza ha chiuso, quindi mi sono dovuta rivolgere a un supermercato – latte bio, ma farlo cagliare è sempre una impresa difficile: limone, aceto di sidro, aceto… Ne ho ricavato un panetto e ho conservato il siero per la prossima volta (chissà quando sarà…). Dato che la cagliata non era propriamente riuscita, per rendere più compatto il paneer l’ho tagliato in friabili dadini e cotto in poco olio di sesamo affinché formasse una crosticina in superficie.
Gli spinaci vanno lessati, strizzati e messi in un wok con aglio, zenzero, cipolla, concentrato di pomodoro, zucchero, cumino, curcuma e, dato che era festa, stavolta ci ho messo pure la panna ma solo dopo aver frullato tutto con il minipimer. La ricetta viene sempre da qui – ed è buonissima.
In accompagnamento, riso basmati lessato e condito con una finitura di olio, semi di senape, foglie di kari (curry), zenzero tritato e mescolato con lo yogurt greco.