giovedì 15 marzo 2018

Salva l'agnello (e non solo)

Ermanno Giudici, Il sacrificio degli agnelli è un peccato di gola, in "La rivista della natura". Il titolo non mi piace, tira in ballo due termini ('sacrificio' e 'peccato') che proprio non aiutano la discussione. Però leggete l'articolo, perché usa toni pacati per informare su una situazione esistente. Diciamo che ci si rivolge a chi compra nei supermercati perlopiù. Il tema è sempre piuttosto impegnativo, perché prima o poi si tira in ballo l'etica. Perché uccidere degli esseri viventi qualche domanda ce la deve pur porre.
E un po' ci casco pure io nel raccontare quel che vedo intorno. Generalizzando, mi pare di individuare alcune tipologie di comportamento ricorrenti nei confronti dell’ambiente e degli animali (vivi o morti) e dei prodotti animali: quelli che non vengono toccati né dalle immagini violente né dai discorsi pacati; che, se si soffermano sulla questione, considerano gli animali alla stregua di cose, e comunque a nostra disposizione – secondo una gerarchia inculcata dal cristianesimo, dove l’essere umano è superiore alle bestie senz’anima. Della molteplice natura accettano senza conflitti che vi siano gli 'animali da reddito', etichetta neutra e impersonale, e le 'bestie' selvatiche e libere (anche se si tratta di animali domestici), che 'stanno bene così', perché 'è il loro istinto'. Qui si collocano benissimo i cacciatori – che comprano e maneggiano armi, che vedono il sangue e l'oscenità della morte – e la maggioranza degli onnivori indifferenti che non percepisce il problema ambientale (l’insostenibilità della pesca intensiva e degli allevamenti, del consumo di acqua e di suolo legati a queste attività, delle disparità sociali e quindi l'accesso al cibo e all'acqua nelle diverse parti del mondo) prima ancora di qualsiasi obiezione di tipo etico riguardo a esseri viventi o perfino prima della preoccupazione per la propria salute (per il tipo di proteine o per la resistenza agli antibiotici).
Magari fra cent’anni, quando le persone con questa mentalità vecchia saranno morte, come lo sarò io, a poco a poco diverrà senso comune, o comunque sarà più diffusa la consapevolezza della mostruosità che stiamo perpetrando allevando, per ucciderli, milioni di animali ogni giorno. Se penso a quale era la sensibilità su questi temi un secolo fa, forse si può timidamente sperare.
All'opposto ci sono quelli che soffrono e si preoccupano per le scellerate scelte ambientali fatte dalla politica – trivellazioni, consumo di suolo, allevamenti di animali, pesticidi in agricoltura, disboscamento eccetera. Siamo pochi, siamo vigili e non incidiamo in modo significativo sui consumi, anche se vorremmo e ci proviamo. Partecipiamo a incontri e conferenze e ci riconosciamo l’un l’altro, perché poi siamo sempre gli stessi, e pochini.
Non mangiare animali è la decisione che si propone di superare la ricaduta più cruenta e insensata, ma porta con sé, a mio avviso, un ampio ventaglio di scelte collaterali: ridurre drasticamente il consumo di plastica, gli imballaggi, riutilizzare più volte, non comprare prodotti delle multinazionali e di quelle industrie che fanno male ai lavoratori oltre che all’ambiente. Operare piccole scelte quotidiane per schivare il più possibile tutte le trappole pensate per il consumatore medio e ridurre la propria impronta ecologica (sapendo che ci sarà sempre qualcuno che si occuperà di inquinare, danneggiare, sfruttare).
Questo individualismo conduce a un'altra categoria di consumatori di carne animale, che ho incontrato di frequente presentando il libro o vendendolo in qualche mercatino: quelli che scelgono il chilometro zero. Ne parla anche l’articolo: ridurre la filiera, non incoraggiare i lunghi trasporti. Con soddisfazione ciascuna di queste persone affermava di conoscere un macellaio, quello che macella le carni di animali ben alimentati e ‘felici’. Ovvio che qui la discriminante è il ceto sociale (carni buone – sulla fiducia – per chi se lo può permettere) oppure la conoscenza o la parentela con l’allevatore di campagna che ammazza il maiale, tira il collo alla gallina, colpisce alla nuca e scuoia il coniglio. Fa un po’ arrabbiare, mors tua, vita mea: il suv e la bagnarola, l’aragosta e il polpettone; da un lato una nicchia privilegiata, ai consumatori da supermercato, invece, le carni di bassa qualità di animali allevati in tempi brevissimi con mangimi che contengono di tutto e imbottiti di medicinali; carne inscatolata, insaporita e colorata artificialmente oppure pesce (in filetti, inscatolato, surgelato, intero, a pezzi) nutrito chissà come in piscine sovraffollate o pescato in un mare pieno di plastica insieme a tonni delfini tartarughe. Ci si consola così, che sia un consumo di nicchia. Qui ci collocherei anche quelli che per carità, l’agnello a pasqua mai e poi mai, ma non si negano il pollo arrosto o la bistecca di vitello, come se questi morissero di morte naturale.
Nessuno è obbligato a diventare vegetariano o vegano, naturalmente; sono scelte che si possono fare (oppure no) considerando gli innumerevoli annessi che oggi si porta dietro l’abitudine al consumo di carne (e pesce). Su questo bisogna proprio farci un pensierino. Ridurre, diminuire.
Per chiarire che chi si astiene e chi no fanno entrambi una scelta individualistica sì, ma di segno opposto: da una parte la sottrazione – nel consumo di acqua, di energia, nell’acquisto di beni superflui (e quanti sono!) – dall’altra l’intento di continuare a ottenere il meglio per sé; mi pare che l’uno e l’altro siano motivati da convinzioni molto diverse su ciò che è bene (per il pianeta) o giusto (per tutti quanti).

Be’, buona pasqua (immagino si stia avvicinando, dato il fiorire di ‘salva l’agnello’).